SCUOLA: DAL “TUTTO A TUTTI” AL “TUTTO A
CIASCUNO”
Potrebbe sembrare una boutade, una battuta,
ma non è così. E’ una cosa seria nella scuola: dal “tutto a tutti al “tutto a ciascuno”.
Il “tutto a tutti” è un principio pedagogico, quello pansofico,
enunciato nel Seicento da Comenio nella
sua “Didactica Magna”. E’ un principio secondo cui tutto il sapere può essere
insegnato a tutti, compatibilmente con l’età, con le condizioni di vita e con
le capacità di apprendimento di ciascuno.
Ed è un principio, quello pansofico,
che è stato alla base dello
sviluppo critico del pensiero pedagogico e
dello svolgimento dell’opera educativa nel corso degli ultimi secoli,
fatto proprio più o meno implicitamente da una buona parte della pedagogia del
Novecento, specialmente dal sistema dell’insegnamento ciclico dello Hessen, il
cui pensiero è stato esposto nel suo “I
fondamenti filosofici della pedagogia”.
Oggi invece la scuola, non tanto con la pedagogia quanto con la
didattica, è giunta a un altro “tutto a tutti”, però con un significato
diverso, che potrebbe essere enunciato
con “ tutto a ciascuno”, nel senso che la scuola vuole assicurare a ciascuno
quello che ha già, cioè quello che gli appartiene per cultura, nonché ciò che
la società contemporanea ritiene necessario per la formazione dell’uomo e del
cittadino ( questi intesi secondo concetti non tanto generici quanto
vaporosamente indeterminati).
Tutto a ciascuno, quindi, che sul piano
pratico si traduce nel rispetto delle
differenze e delle caratteristiche della cultura originaria di ciascuno e nel
rispetto delle istanze avanzate dalle famiglie ebraiche, arabe, cinesi,
africane, ecc. Con ripercussioni persino sulla mensa scolastica, e non solo:
rispetto per il cibo che esclude il maiale, che esclude carne non macellata
secondo le prescrizioni religiose, ecc., rispetto per il sabato degli ebrei,
rispetto per il Ramadan degli islamici, rispetto del credo dell’altro fino a
togliere il crocifisso in certe scuole
ecc.
Tutto a ciascuno, nel rispetto delle diversità di tutti, con le supreme
pretese delle famiglie. L’attenzione
alle differenze religiose, alle differenze culturali, alle differenze
psicologiche, alle diverse potenzialità di apprendimento; l’attenzione ai
diritti degli apolidi, degli immigrati, dei diversamente abili, ecc, ecc.
Una scuola strutturata non sul “Tutto a tutti” ma sul “tutto a
ciascuno”, dunque. Quindi una scuola non più impegnata pedagogicamente, ma
tutta concentrata sul piano dell’attività didattica, con la
suprema attenzione
all’ organizzazione (degli orari,
delle risorse materiali, professionali,ecc) ed alla progettualità puntuale
della sua azione articolata in tutte le varie direttrici.
Un’organizzazione che esige la presenza anche di sei sette insegnanti nelle
classi della scuola primaria, quindi classi poste organizzativamente in
prospettiva di secondarizzazione dell’insegnamento e che richiede un impegno
programmatorio e un quadro degli orari da costringere gli insegnanti ad uscite
e rientri con difficoltose ore di “buco” incomprensibili nel rapporto educativo degli alunni di sei/dieci anni.
Ma un impegno programmatorio ben maggiore,
quasi di dimensioni ingegneristiche, lo
richiede l’attenzione al rispetto della molteplicità delle richieste e delle
esigenze di ciascuno sul piano didattico, riguardo alle particolarità
psicologiche e dei modi e dei tempi di apprendimento di ciascuno e riguardo
alle particolarità delle esigenze religiose, culturali, di uso e costume, che
troppo spesso hanno molto poco a che vedere con le funzioni educative. Si
rovesciano nella scuola, allora, programmazioni, progetti e progettini per
questo e quell’obiettivo didattico, a riguardo di questo e quell’alunno, di
questa e quell’attività, di questa e
quella iniziativa scolastica ed anche extrascolastica.
Un impegno effettivamente gravoso per gli insegnanti, se si considera la
pretesa della verificabilità dell’attività didattica, riguardo alla valutazione
dei risultati di apprendimento, dell’efficienza e dell’efficacia della
progettualità e della programmazione, dei rapporti con le famiglie. Per cui
tutta l’attività della scuola nel suo complesso è soprattutto concentrata sulla
propria organizzazione, sulla progettualità, verifica e valutazione, piuttosto
che sul rapporto maestro-scolaro che, in passato, era giustamente ritenuto
pedagogicamente essenziale.
Ciò mi richiama in mente i sette
errori dell’educazione rilevati dal
filosofo francese Maritain, che li enunciò nel suo “Educazione al bivio”
scritto negli anni Trenta, tra i quali il misconoscimento dei fini (es. la
scuola in funzione del lavoro professionale) e il pragmatismo oggi hanno non poca incidenza sulla vita
della scuola.
A quei sette errori, però, oggi ne vanno aggiunti altri. Specialmente
quello, assai caro ai politici, che riduce la scuola quasi ad essere l’organismo per la soluzione dei problemi che
la complessa vita moderna pone alla società e che dovrebbero avere soluzioni
politiche, ma che invece la politica li riversa nella scuola come in un pozzo di
decantazione. E vi va aggiunto specialmente quello di dare risposte alla
molteplicità delle istanze poste dalla complessità delle aspirazioni e
condizioni delle famiglie e delle condizioni culturali di una società che si
muove sull’onda della globalizzazione.
Sono questi errori, soprattutto, che costringono gli insegnanti a
spostare le loro energie
e la loro
attenzione dall’essenziale
rapporto educativo maestro-scolaro alla massa di progetti e progettini, alla
verificabilità dell’insegnamento concepito come prodotto misurabile, come merce
valutabile secondo la quantità e non secondo la complessità, la delicatezza e
la sensibilità della persona umana nella
sua costruzione: con conseguenti tensioni psicologiche e logoramento delle
risorse personali e professionali degli insegnanti .
E quel che più conta, con il
fondamentale danno educativo per gli alunni.
Luigi Filippetta
(Direttore didattico in pensione)